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Il 18 febbraio u.s. la commissione Cultura della Camera ha licenziato il testo della proposta di legge sulla riforma dei contributi pubblici all'editoria. Il cammino della riforma è stato tortuoso: si è partiti da una proposta del M5S che si prefiggeva, a dispetto dell’articolo 21 della Costituzione, di abolire qualsiasi contributo pubblico all’editoria, e si è arrivati all’istituzione di un Fondo per il pluralismo dell’informazione. Non mancano certo aspetti positivi nel percorso che è stato fatto: si è passati, come ha dichiarato il relatore Rampi, dal rappresentare l’editoria come “un settore parassitario che succhia denaro pubblico” alla consapevolezza che si tratta invece “di un settore strategico per la democrazia in cui la funzione del pubblico è quella di supportare i processi virtuosi.”

È sicuramente apprezzabile che il testo di legge preveda, come noi abbiamo sempre chiesto, che per poter accedere ai contributi si debba dimostrare il rispetto dei contratti collettivi di lavoro; è positivo che si introducano misure concrete per favorire l’occupazione giovanile. Altrettanto positivo è che vengano escluse dal novero dei beneficiari le società quotate in borsa: anche questa è una cosa che abbiamo sempre chiesto e suggerito.

Ma la demagogia dell’antipolitica continua a far parte dello scenario, unita all’approccio un po’ praticone del “faccio tutto io con una delega, tanto faccio in fretta e meglio” che accompagna tutto il cammino del Governo Renzi. Il testo, infatti, prevede un’ampia delega al Governo per ridefinire il quadro del sostegno all’editoria, inserendo tra i principi e criteri direttivi per l’esercizio della suddetta amplissima delega l’esclusione dal finanziamento “degli organi di informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali…”. Sorvoliamo sul fatto che ci sfugge quale sia la definizione di “movimento sindacale”: siamo più avvezzi al vocabolo organizzazione, che probabilmente meglio si adatta ad associazioni di lavoratori che tanta parte hanno avuto nella storia e nella crescita democratica della nostra Repubblica. Possiamo comprendere che siano esclusi dai benefici gli organi di informazione dei partiti, visto che questi godono di altre forme di sostegno. Non possiamo però fare a meno di chiederci come si possa istituire un Fondo per il pluralismo ed escludere dai beneficiari gli organi di informazione delle organizzazioni sindacali, ed anche i periodici specialistici a carattere tecnico o scientifico. Non c’è bisogno di lanciarsi in ragionamenti difficili, basta aprire un manuale di diritto pubblico a piacere per trovare scritto che i sindacati sono elemento del pluralismo politico e sociale, e dunque il nesso con l’importanza della loro partecipazione alla formazione delle opinioni dei cittadini di un Paese democratico ci pare, più che intuitivo, innegabile. E non si comprende il motivo di voler affidare le pubblicazioni scientifiche e tecniche ai soli finanziamenti privati: quale arricchimento alla libertà di divulgazione scientifica si pensa di poterne ricavare? Ci auguriamo davvero  che il passaggio del testo in Parlamento ne determini un significativo miglioramento.

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